Ormai mi riduco a guardare al passato: in questo caso remoto.
Lo faccio aiutato da Orazio e da un calcio, quello di oggi, le cui differenze rispetto al passato non sono solo fisiche, tecniche, tattiche.
Settant’anni fa solo un destino cinico, baro; un meteo inclemente, un altimetro bloccato e l’amicizia di Valentino per l’ex capitano del Benfica Ferreira, in difficoltà economiche, riuscirono a bloccare un gruppo di giocatori cui nessuna formazione resisteva.
I nomi di quei diciotto giocatori (perirono in 31, incluso il personale di bordo, lo staff tecnico, alcuni giornalisti) sono ormai entrati nella memoria, nella leggenda, nei cuori e nelle anime di chi ama questo sport: dal portiere Bacigalupo a Loik, dai fratelli Ballarin a Grezar, da Romeo Menti ad Ossola per arrivare a Valentino Mazzola, grande capitano di quella squadra, uno dei più forti giocatori italiani di ogni tempo.
Ci siamo stati tutti, a Superga: ad onorare la lapide, pòsta sul fianco del colle dove l’aereo si schiantò; a dire una piccola preghiera (se credenti) o rivolgere un pensiero, da ripetere magari nella maestosa basilica sulla sommità della salita. A farsi venire i brividi, magari qualche groppo malcelato in gola.
Chi ha la mia età possiede certo il privilegio di aver sentito raccontare la storia di quella squadra da un nonno, un padre magari più ‘agée’, che quei giorni li ha vissuti e ha letto. Chi dal quotidiano di riferimento, chi sulla ‘Domenica del Corriere’ che dedicò alla tragedia una copertina; chi magari dalla radio dove, chissà, ne parlò Nicolò Carosio, risparmiato per un contrattempo come qualche altro.
La sciagura della ‘Chape’ accaduta a fine 2016 ha riportato alla memoria, fosse stato necessario, la perdita di quegli eroi fasciati di granata. Il quale, peraltro, non è (nel calcio) colore comune: proprio a quegli anni ’40 risale il ‘quarto d’ora granata’, quel momento in cui la squadra guidata da Ernesto Erbstein metteva le marce alte vincendo difficoltà ed avversarie; e a quei colori appartiene un’altra vicenda terribile, l’incidente che si portò via la farfalla, Luigi Meroni, investito dal futuro presidente del Toro Attilio Romero.
Insomma la storia del Torino non è banale: ma come riferiva in questi giorni un tifoso autorevole dei colori torinisti ‘non ricordo metà dei giocatori degli ultimi cinque anni, ricordo a memoria la formazione di quel 1949’.
Cosa c’entra con i giorni d’oggi?
C’entra, amici miei. Al netto della tragedia, nei cuori e negli occhi di chi guarda il ‘pallone’ e per qualche colore prova meno indifferenza restano scolpiti gesti, immagini, partite. Se per mio nonno erano Raggiodiluna e la vittoria contro il Gre-No-Li-Milan di tanti anni fa, per noi si può partire dallo spareggio di Vicenza, passare per il doppio salto dell’Ajax-Udinese di Giacomini, arrivare a Guidolin nostro che balla il Kuduro sul podio della qualificazione Champions.
Negli ultimi cinque anni? Nulla.
Onore e rispetto alle vittime di Superga; onore e rispetto, un silenzio lungo settant’anni. Un abbraccio a chi ha onorato la sacra Biancanera di cui noi cantiamo (cantavamo?) le gesta.
Orazio, dicevamo: omnes non moriar, scrisse. Significa letteralmente ‘non morirò del tutto’. Non si muore se il nostro aereo casca, i nostri corpi si squarciano, le anime vibrano altrove ma un ragazzino, in una piazza qualunque, con un qualsiasi pallone di cenci dirà ‘oggi io sono Valentino e tu Gabetto’. Non moriranno mai quelli che ci hanno fatto sognare (da bambino, non ancora rovinato da un carattere impossibile, ne segnavo a grappoli e intimavo ‘Ulivieri sono io’); un ricordo, un gesto, una rete, una frase o una carezza ad un sostenitore varrà la vita eterna nei cuori e nella memoria di chi questi ricordi, gesti, reti, carezze tramanderà.
Per quelli che appartengono ai nostri ultimi cinque anni? Salvate i colori che indossate. Poi, detto con rispetto, toglietevi dai piedi e lasciatemi il conforto dell’oblìo.
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