È solo calcio, è solo calcio, è solo calcio.
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È solo calcio, è solo calcio, è solo calcio.
Una maglia che pare portata con la disinvoltura di chi, partito bene, poi così così, poi meglio e infine malissimo, se ne frega. E spero non sia vero.
È solo calcio, è solo calcio, è solo calcio.
Una gestione che addossa ogni responsabilità su una sola persona. Non vivo lo spogliatoio, non so cosa sia successo ma cambiare così tante guide tecniche presume che la categoria sia scadente, che le scelte siano deluse dai fatti, o meglio che queste non siano adeguatamente difese dagli attacchi di un manìpolo di ragazzotti. Che saranno anche milionari, ma restano sempre un manipolo di ragazzotti.
È solo calcio, è solo calcio, è solo calcio.
No. Non è solo calcio.
Sono in totale disaccordo con i capi della redazione; col Direttorissimo, che mi scrive ‘beato te che sei lontano’ quasi l’affezione verso due colori, che sono di base, fosse moderata da cinque, sei ore di fuso orario. O da orari di lavoro che il traffico diluisce e prendono quattordici ore al giorno. Impedendo, di fatto, di assistere alle recite bianchenere.
Con il Caporedattore, cui va il mio abbraccio fraterno, che si sente umiliato.
Io non lo sono.
Ho macinato decine di migliaia di chilometri su e giù per l’Italia, seguendo i suddetti due colori, quando ancora le autostrade erano primitive al centro della penisola, un po’ meglio a nordovest, inesistenti o quasi a Est.
Ho seguito i colori soffrendo, guardandomi partite aggrappato alle spalle di papà ché il vecchio Tenni non ci poteva contenere tutti, e io dal basso dei miei otto anni avrei guardato le chiappe di chi mi stava davanti.
Ho vissuto la prima promozione, patito le retrocessioni amarissime, bevuto quei calici pensando, da ragazzino ottimista e neanche tanto, che il giorno dopo si iniziava a programmare la risalita.
Ho tifato giocatori straordinari, altri forti, molti medi, qualche mediocre e degli scarponi clamorosi. I quali, tutti, tutti! (o quasi) ci hanno sempre messo faccia, garretti, polmoni.
E cuore.
Ho sperato, all’inizio di quest’anno, che con il dalmata si potesse dare seguito ad un miniciclo; che la rosa, per quanto ancora modesta, riuscisse a rinsaldarsi in un gruppo, una squadra, dove ognuno desse il 120% per sé, i compagni e quei cinque, seicento illusi che ancora li seguono in trasferta.
Che vedono il manipolo di ragazzotti internazionali prendere sette pappine, e potevano essere anche di più, e finita la gara continuano a cantare. Cantare. Cantare.
No, non sono scemi. No, non sono ‘sottani’ a nessuno.
Loro cantavano i due colori. Il bianco ed il nero. Che molti ritengono banali, ma per loro, e per me, sono gli unici possibili dovendo sostenere una squadra di calcio.
Perché sono stati i colori, nella maggior parte dei nostri casi, a scegliere noi e non il contrario.
Io nemmeno voglio entrare nelle beghe condominiali di chi addossa la responsabilità ai sostenitori, a dir di costoro, troppo morbidi verso la società.
Né dall’altra parte nascondo dietro alla lunga permanenza in massima categoria la delusione per non vedere espresso un gioco accettabile, se non per brevi tratti delle ultime sei stagioni.
Dico solo che chi prende le decisioni (e non asserisco non succeda, anche se i fatti dicono il contrario) deve pensare che quei pochi, tanti cuori che seguono la squadra sono l’unico patrimonio vero. Da tutelare, preservare, capire se non proprio accontentare.
I giocatori? Mah, mi sembra che il sistema ormai sia esploso. Le grandi società prelevano ragazzini pagandoli cifre immense, e campioni mettendo sul piatto il PIL di un paese caraibico. Lo scouting è globalizzato, trovare la perla nascosta difficilissimo, monetizzarla quando ancora non è affermata quasi impossibile. Vero Rodrigo?
Ed ormai il solco scavato è evidente; molti affermano come l’Atalanta sia esempio di grande squadra low-cost, ma non mi sembra che gente come Duvan e Muriel sia arrivata a poco prezzo.
La querelle-Ancelotti, arrivata anche in Parlamento tramite l’interpellanza del Napoli club Montecitorio, dice molto del momento. È vero: il calcio-business preferisce gli stadi vuoti. È vero, il gruppo di onorevoli firmatari forse dovrebbero pensare ad altre priorità.
Ma se il pallone, in questa nazione, è uno dei business più grandi e profittevoli lo si deve a chi acquista biglietti, abbonamenti, gadget; a chi muove l’indotto spostandosi nelle città ospitanti; devo continuare?
Non credo che un sistema chiuso possa prescindere dalla ‘gente’, da chi il calcio lo segue. Che dev’essere preservato, non preso in giro come troppo spesso succede. E non parlo solo, né tanto di Udine.
Credo invece ci siano giocatori, nell’Udinese, che non sopportano la situazione e mostrano, almeno, di dare l’anima. Loro.
Invece via Tudor, esonerato. Avanti il prossimo, gli lascia il posto suo e forse gli dispiace il giusto, anche viste le scelte effettuate nelle ultime due gare. I nomi che girano sono persone cognite, come l’Anziate o l’attenzionatore; e l’ultima ora, Walter Zenga. Il quale se non altro porterebbe grinta in uno spogliatoio che pare alla deriva.
Pierpaolo Marino dice cose normali, non arrivo a considerarle di circostanza perché stimo l’uomo. Se però davvero sono rimasti impreparati, dopo gli ultimi sei anni, allora c’è molto da sistemare. Per ridarci la nostra squadra di calcio.
Non sono umiliato; non sono atarassico. Sono deluso. E non ci rido sopra, perché non sono così bravo da autoflagellarmi mettendo sette williams sul tavolo dopo la scoppola di Bergamo. Ammiro chi ci riesce, io sono molto meno autoironico.
Quelle reti, tutte, sono state chiodi nel cuore. Una per una. E ancora più sanguinose le quattro prese dalla Biancanera incapace di intendere e volere di fronte alla Roma in dieci uomini.
Il silenzio. Ecco, il silenzio è un buon messaggio. Nel mio caso però suturo le ferite scrivendo.
Perché il peso di una situazione così, se portato assieme, risulta meno oneroso. E se le mani che aiutano a sostenerlo sono quelle della Essepià, risulta forse ancora più lieve. Le attendo.
PS: Udine, anche da Treccani, è una città. Non una cittadina.
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