4 maggio. Tutti pensano alla ‘fase 2’; la mia mente invece corre al 1949. Quando non c’ero, però…
Però il destino s’ingoiò il Grande Torino, la squadra di italiani più forte della storia, ed una delle più invincibili nella storia del calcio.
Tutti sanno cosa successe, come e chi perì; tutti sanno che quelli erano la ‘Nazionale di calcio azzurra’; tutti sanno che il papà di Sandrino Mazzola, Valentino, quello che arrotolandosi le maniche faceva partire il ‘quarto d’ora granata’ nel quale tutto succedeva, era il miglior centrocampista del suo tempo, forse della storia ma volò in cielo a trent’anni. Un ragazzo.
Tutti sanno cosa succede oggi. E no, amici miei, non sarò il ventesimo che vi annoia con numeri sull’importanza economica del calcio, sui protocolli sanitari da seguire, sulla Francia no, la Germania sì, l’Inghilterra anche e la Spagna nì.
Non so nemmeno dirvi se si riprende, quando, se invece si chiude tutto. Non lo so, scelte esclusivamente politiche.
Mi piace invece attualizzare il messaggio dei granata, assorbiti dal cielo troppo tempo.
Tutti, tutti noi siamo stati ‘iniziati’ al calcio da bimbi: siamo entrati in quelle arene che sembravano immense, mano nella mano col babbo, che come favola della buonanotte ci raccontava le gesta di gare giocate quando ancora la radio da ascoltare era spesso quella del bar, ché a casa l’avevano così pochi…
Siamo entrati in quegli stadi che sembravano arene gladiatorie, intimiditi rimpiccioliti annichiliti dall’urlo della folla che esaltava le gesta dei propri beniamini, masticando sigarette amare e forse qualche improperio mentre noi, fortunati, avevamo le mandorle caramellate.
Il calcio non lo si ama poco a poco: è un fulmine in mezzo al cuore. È un’esaltazione di gruppo, un urlo animalesco che esce dal più posato di noi quando Giovanni Pasquale trafigge Reina ad Anfield, un salto da dieci gradini (in basso) quando Zico infila Tancredi a cinque minuti dal fischio finale, sotto la sua Curva Nord dove anche noi ci trovavamo.
Il calcio è uscire dallo stadio con le orecchie ovattate dalle urla, incessanti, di una folla spesso trabocchevole; è crescere, diventare adolescenti infine adulti, soffrendo calciomercato dopo calciomercato. Il calcio è amare un giocatore a prescindere dalle doti tecniche, solo perché in una gara contro il Perugia sacrifica una gamba ed uscendo pensa invece ad incitare i tifosi a sostenere i compagni rimasti in campo.
Adoro il basket, sport che mi ha altrettanto fulminato da bimbo: ma non esiste, in Italia, una passione che avvicini, nemmeno di striscio, quella per ventidue calcianti che si inseguono su un rettangolo verde.
A chi sto rivolgendo questo patetico pezzo?
Sì, onorevole ministro, soprattutto a Lei. Che manifesta fastidio verso il calcio, fastidio che dimostra negandolo quando nessuno si era sognato di chiederLe conto di tale sentimento; fastidio verso i calciatori, soprattutto verso chi il calcio lo attende come una possibilità di dimenticare le conte dei morti, gli ‘hashtag’ insopportabili, la retorica e le lezioni di virologia che passano loro sopra la testa. E meno male, fossero alla portata di tutti mi spaventerei.
Le piscine, le palestre, le sale di danza sono importanti: citarle, però e me lo consenta, sa tanto di atteggiamento superficiale. Rancoroso. Ingiusto. Ella, signor ministro, dovrebbe occuparsi di tutti questi sport con uguale rispetto. Anche del calcio, cui oggi, pare a me ma spero di sbagliare, di rispetto ne riserva pochino.
Nel suo passato, signor ministro, mi pare ci sia la presidenza di un ente, straordinario, che dal secondo dopoguerra aiuta i bambini: quelli che in Italia, proprio in quell’epoca, sono stati spesso salvati dal correre dietro ad una palla più o meno rotonda, più o meno di pezza. Nei prati appena bonificati dalle mine, negli oratori fuggendo dagli scappellotti dei cappellani, nelle piazze ancora senza automobili. È la propaganda attuale che spaccia questa pandemia come una guerra, non io (che userei altri termini): bene, diamo ai bimbi la possibilità di appassionarsi a giocatori di calcio che cercano di violare la porta avversaria.
Giocare al calcio non significa svilire le tante, troppe persone morte a causa di questa epidemia; giocare al calcio significa dire loro che li pensiamo, che però la vita vince su tutto: anche sui virus.
E scrivere, su una rete sociale, che non ha tempo dovendo pensare ad altro a me piace poco. Ella sapeva, quando giurò, che si sarebbe preso una posizione di responsabilità: è tempo di agire.
Oggi parla del protocollo per gli allenamenti: in parte rimangia tutto, in parte invece continua a prendere tempo. E ciò non mi stupisce.
Finitela: finitela di dire ‘eh ma in Germania, eh ma in Spagna…’. Non sento infatti titolari di dicasteri esteri usare la stessa maniera, per usare termini Vostri, di ‘interloquire’.
I calciatori sono tutelatissimi; i calciatori non sono affatto più a rischio di altri lavoratori, se verranno attuate le necessarie misure di sicurezza. Sa cosa mi piacerebbe? Percepire un sentimento di collaborazione e, mi perdoni l’uso del termine, di positività. E se siete certi che a settembre tutto sarà normalizzato, se siete certi che oggi rischiereste un’ecatombe, allora abbiate il coraggio di spegnere il motore. PrendeteVi carico dei lavoratori che avrebbero bisogno delle Vostre tutele, il resto ce lo faremo piacere e continueremo a guardare partite di quarant’anni fa.
A me dei giochi di palazzo interessa zero. A me interessa solo che a casa, nelle case, negli stadi (quando si potrà) ci siano bimbi che prendono i padri per mano con gli occhi illuminati per un gol.
Il resto è noia. Il resto, ascoltando Voi, oggi, sono solo anni persi.
Dopo settantuno anni ci ricordiamo di quegli eroi; i quali non sono morti, sono solo in trasferta. Fra ottant’anni ci ricorderemo della pandemia. Temo che alcuni personaggi, invece, cadranno presto nell’oblìo.
Fortunatamente.
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