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Udinese, a Pescara un compitino svolto benino

di Franco Canciani

Già. All’Adriatico va in scena una gara che tutti ci immaginavamo difficile per la mutevole umoralità dei bianchineri: invece in un primo tempo soporifero ma vincente capiamo molte cose.

Comprendiamo come mai il Pescara abbia nove soli punti conquistati sul campo; perché un campionato a venti squadre ove al posto delle tre che stanno scendendo forse salgono S.P.A.L. o Frosinone, è uno scherzo della natura; perché tante volte ci siamo infuriati per quel che poteva essere e non è stato.

Un primo tempo in cui l’Udinese vince 1-0 senza sudare, né rischiare contro un Pescara che di Zeman non ha nulla. A proposito: sono zemaniano e lo sapete, ma se il boemo non ha mai vinto con squadre decisamente ben attrezzate, ci si può attendere cosa se in difesa deve giostrare tre veterani come Bruno, Bovo o Stendardo e quando questi si infortuna entra tale Fornasier, che si perde Zapàta permettendogli l’incornata vincente? Se davanti fanno giocare un libico con tre presenze in nazionale, ed un passato fatto di Brescia, Palermo (zero presenze) e Rochdale?

La ripresa? Sarebbe potuta essere tennistica, ma l’Udinese di questi tempi è squadra media e preferisce fare il meno possibile. Capitalizza una punizione letta malissimo dalla difesa abruzzese, con Jankto che ringrazia; e una discesa dello stesso Kuba (migliore in campo in senso assoluto) che consente la centesima rete a Cyril Théréau, anche oggi non trascendentale.

Finita lì. La rete dell’inquartatissimo Sulley è un gentile regalo della coppia Kums-Scuffet (subentrato a Oreste, infortunato, e parso lontano dalla tigre di qualche anno fa) e sancisce l’onore delle armi per una gitante in serie A, pronta a rientrare fra i ranghi cui una rosa del genere appartiene. Sia detto senza mancanza di rispetto: ma pretendere di affrontare la massima serie con la rosa che si fece onore in cadetteria, con pochi innesti di giocatori dalle carriere ormai più alle spalle che di fronte, appare troppo ambizioso. Anche con allenatori che amano il gioco d’attacco. Già: o davanti hai Signori e Baiano, o Immobile e Insigne, oppure vincere 5-4, 4-3, 13-12 è cosa molto difficile. E anche un’Udinese formato medio suda poco per sbancare lo stadio pescarese.

Solo qualche nota lieta, ma l’importante erano i punti. Perché finalmente, con una vittoria domenica prossima (quando io me ne fregherò e mi recherò al PalaLongobardi a seguire il derby: l’avete voluto voi, pavidi giocolieri dei calendari) il campionato sarà ufficialmente finito e si potrà finalmente pensare a programmare il futuro. Quello dei giovani.

Jankto è fra queste: uno stantuffo inesauribile finché gli regge il polmone, accoppia dinamismo ad una tecnica non primordiale. Modesto l’apporto di Cirillo e soprattutto un DePaul troppo spesso fuori dal gioco. Dicono che giochi fuori ruolo, rispondo che contro una formazione così inferiore come il Pescara da lui mi sarei atteso molto di più. Solito Samir, positivo e consistente; ingiudicabili Danìlo ed Angella, per manifesta inferiorità di Cerri e soci. Giudizio sospeso su Emilio il nordico, che alterna grandi sprazzi a qualche errore di troppo. Un bentornato a Simone Scuffet e Gabrielito Silva, un caro saluto a Kums che a fine anno se ne torna a Watford senza lasciare grandissimi rimpianti.

Mentre scrivo sento che il Palermo perde contro la Roma, e la salvezza è andata. Una roba comica, considerato un Empoli così mediocre che i punti li ha fatti solo contro l’Udinese (altrimenti sarebbe a 19, in piena zona rossa). Poteva l’Udinese fare di più?

No.

No: perché se i giocatori fossero stati in grado di dare qualche soddisfazione in più ai supporter, l’avrebbero fatto. Invece hanno alternato gare perfette (casualmente contro le prime della classe) a recite inguardabili, mostrando di essere un “groppo” di giocatori e non mai un gruppo di amici che si farebbero in quattro l’uno per l’altro.

Da chi ripartire? Da Meret, Pontisso e Coppolaro; da Jankto, Fofana ed Ewandro; da Barak e Lasagna. Da chi, fra gli altri, ci tiene e veramente. Nereo Bonato dovrà guardarli tutti negli occhi e, coraggio a due mani, spedire altrove quelli che nel progetto non credono.

Lo so: molti fra Voi affermano, non del tutto a torto, che di progetto da anni non c’è traccia.

Errore.

Il progetto siete Voi. Sono i sostenitori, i cori, quel “Bianconero è il color...” che sale alto dalla curva prima delle gare, solo in parte coperto dall’oscenità semiclassica ideata dal riccioluto marchigiano, e che per obbligo contrattuale deve giocoforza stuprarci le orecchie ogni maledetta domenica.

Il progetto si chiama Udinese, ha color di biacca e di carbone ordinatamente alternati sulla maglia, e calzoncini e calzettoni meglio se neri. Ha uno stadio che si chiama Friuli, ha tante migliaia di cuori che per questi colori battono, allo stadio e in trasferta ed in giro per il mondo; migliaia di cuori che diventano uno solo e si stringono attorno a chi ha bisogno, a prescindere dalla fede calcistica dei bisognosi; il progetto ha una storia, che affonda le radici nel diciannovesimo secolo e si protende rapace negli anni cinquanta del novecento, e poi nei settanta, ed in quegli ottanta quando un Piccolo Gallo venne a rapirci menti e cuori. Il progetto non dimentica Giacomini, Ferrari, Zaccheroni, Guidolin e quanti ne dimentico.

Il progetto siamo noi: e se lo deve mettere in testa chiunque tenga le redini della società. Che sia Pozzo, o Mateschitz, o un califfo o una cordata friulana, se lo ricordino bene. Lo ribadisco: sono vecchio abbastanza per ricordarmi della Serie C, di Omegna e San Michele Extra, di Casale e Pergocrema che oggi nemmeno esistono più. Non andiamo allo stadio per vedere giocare Juventus, Milan, Inter: andiamo a seguire l’Udinese.

Le parole e la storia hanno un peso. I pedatori che ne vogliano far parte lo accettino. Per gli altri, c’è la Major League americana, o qualche campionato qatariota o saudita. Lontano da qui.

 


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