L'importanza di chiamarsi Gigi
L’importanza di importanza di chiamarsi Ernesto è una piéce wildiana, altamente simbolica; tutta giocata sulla medesima pronuncia che in inglese hanno il nome proprio Ernest(o) e l’aggettivo “earnest” (onesto), l’Oscar nostro vuole scagliarsi contro il culto dell’apparenza che sta caratterizzando, per lui in maniera insopportabile, la “cultura” dell’Inghilterra vittoriana.
Come sempre ci sarà chi tra di voi penserà, per il sottoscritto, ad un trattamento sanitario. Che c’azzecca una commedia dell’ineffabile dublinese con le cose del calcio in bianchenero?
C’entra, c’entra.
Ieri sera avevo decisamente bisogno di una serata di sport, dopo un pomeriggio, conseguente ai fatti cestistici di Roseto, un po’... Vabbé, lasciamo perdere. Sono convinto di quel che ho visto, sentito e scritto. Capitolo strachiuso. Senza rancore.
Ed in soccorso mi sono venute due squadre che giocano al calcio. Sì: due.
Di una si sapeva: Il Torino è una bella squadra: dalla cintola in su gioca in maniera veloce ed a tratti elegante, potendo contare sul talento fumantino di Adem Liajic, ma soprattutto sul “mio” centravanti della nazionale, Belotti. Avrei voluto l’avesse preso l’Udinese dal Palermo, peccato. Non mi ha convinto l’argentino Boyé: probabile Iago non fosse in perfette condizioni, dato che in seguito è subentrato un evanescente Maxi ex-Nara.
Ma l’Udinese di Delneri non è stata da meno: ha iniziato bene, poi un’impasse di una decina di minuti nei quali gli avversari segnano e rischiano di raddoppiare, susseguente equilibrio fino alla rivoluzione biancanera nella ripresa, di effettivi e intensità: gara ribaltata, poi riacciuffata dai granata per un pareggio giustissimo.
Ed eccoci all’earnest di casa nostra. Perché lo show, quello vero, è nel dopopartita.
Non sono solito scendere in sala stampa, preferisco scrivere scempiaggini basate solo sulle mie percezioni. Ieri faccio un’eccezione, ma credo che d’ora in poi diventerà regola.
Gigi Delneri è un grande: lo dico da sempre e come sempre so di essere parziale, così come nel difendere Emil anche quando sbaglia.
Il mister ascolta con pazienza le domande, risponde a tono e con franchezza. Colgo fior da fiore. Kums? È dotato tecnicamente e ha personalità per gestire la squadra; non è bloccato, è frenato, ci lavoreremo sopra. De Paul? Il calcio moderno è intensità, agonismo, corsa soprattutto senza palla. Chi non riesce ad adeguarsi a questi cànoni resta negli spogliatoi.
Continuità? Sì, ma paradossalmente la gara più bella è quella persa a Torino. Adesso bisogna continuare a lavorare nel cantiere-Udinese.In fondo, dice il Gigi, gli uomini li sta conoscendo via via...L’occasione di Zapàta all’ultimo respiro? Delneri respira, digrigna i denti poi risponde “beh, ha fatto un bel movimento ed un bello scatto”. Sì, ma il tiro? “beh... poteva fare meglio” e si capisce che luiquel pallone lo aveva visto dentro...
La cosa più bella? La curva riconquistata. Ci voleva, sostiene Delneri, perché per lavorare bene bisogna essere tutti d’accordo, in sintonia e senza malintesi di sorta, aggiungerei io.
È balsamico poter avere un allenatore che parla, respira, pensa, ride esattamente come noi; che ci conosce come noi conosciamo lui, ed in più è intenditore di pallone, e pronto a cambiare le cose in tempo reale se, come direbbe sicuramente lui, vede “la cape mal tajade”. Sta avendo la capacità eccezionale di oscurare ogni problema a monte del campo, incluse le ultime vicissitudini tra la proprietà e un quotidiano locale.
Tutto ciò dopo aver avuto, nell’ordine, in panca: uno di noi, che ormai si era talmente ingrigito da risultare (a molti, non a me!) quasi antipatico; tanto frustrato dallo stress, da indicare all’esemplare armata bianconera al seguito i genoani come esempio di tifo. Tutto rientrato due settimane fa, un bagno di folla, qualche lacrima e tanti, tanti abbracci.
Poi un piacione romano, che fosse stato davvero così capace magari oggi al posto di Vecchi all’Inter ci starebbe lui, anziché svernare in Grecia. Bel campionato, sicuro, ma periferia dell’impero calcistico.
Indi l’Anziate: non sprecherò troppe parole, dico solo che ai miei occhi era l’incarnazione di una frase che il sindaco-Vittorio DeSica pronunciava a proposito del vigile-Alberto Sordi, inerente lo sguardo di questi. Sfortunato: ancora lautamente retribuito dall’Udinese, invece di giardineggiare e offrire le proprie opinioni a Radio 24, decide di rescindere credendo di essere cercato dal Cesena e da una squadra di serie A. La possibilità più concreta oggi sembrerebbe Palermo: auguri.
Tralascio la parentesi-De Canio, certamente un gentleman;quest’anno scelgono Gioacchino da Ascoli, uomo all’apparenza concreto ma rivelatosi inconcludente, al limite del parossismo nel ripetere all’infinito un mantra che ha irritato anche i giornalisti che lo sostenevano. Egli ancora oggi sciorina interviste come i panni dell’Olandesina della Mira Lanza, inveendo agli infortuni ed alla mancanza di tempo. Se l’intervistatore fossi io, gli direi solo due parole: la prima sarebbe Verre, la seconda Fofana. Jankto lo lascerei stare, vile ucciderei un uomo quasi terminato.
Ma cos’avevano in comune tre uomini così diversi, tre allenatori dal credo difforme? Tre personaggi dalle diverse qualità?
Non erano “earnest”.
Hanno indossato maschere: chi per farsi piacere dall’ambiente, chi per difendersi da questo, chi invece per sfuggirgli.
Luigi Delneri, sessantaseienne aquileiense, non sarà mediaticamente apprezzabile come il Profeta di San Giovanni, né all’apparenza (rieccoci!) determinato come i successori: ma è uomo della pianura friulana, il quale conosce l’importanza di chiamarsi Gigi, non Luigi, di tener bene la braida, dell’accoppiata osteria-chiesa in mezzo al villaggio.
E se la laicissima chiesa è lo stadio Friuli (mi rifiuto di inquietare lo spirito degli emigranti e delle vittime del terremoto chiamandolo Arena), beh l’osteria non è in Friuli (come ritiene qualcuno) un luogo ove sfasciarsi di vino; ma storicamente quella piazza in cui stringere affari, parlare di vita e vite, e di sport, di basket e calcio.
Gigi l’Aquileiense conosce quella piazza perché vi è cresciuto. Vi appartiene. E al centro del villaggio Udinese, lui ha messo la maglia e i tifosi. Lo ripete: la cosa più importante è averli riconquistati. Ha ragione Daniele Muraro a sostenere che loro non si sono mai allontanati; però, caro Pres, devi ammettere che “venite sotto la curva” e “vi vogliamo così” non si sentiva da settimane, mesi, forse anni.
E quelle parole in friulano, lanciate qui e lì; quel “sùpo!” al collega giornalista titubante nella domanda, e “vonde cumò?” quando siamo in dirittura fino al “mandi” che sigilla la serata, beh per me hanno un significato solo.
Siamo tornati a casa. Casa nostra. L’importanza di chiamarsi Gigi ed andare a Genova a giocarcela.