ESCLUSIVA TU - Capitan Bertotto: "Portare la fascia è un motivo di orgoglio"
Una storia d’amore lunga 13. Così si può definire il rapporto tra Valerio Bertotto e l’Udinese. Torinese classe 1973, ha ricoperto per tutta la sua carriera il ruolo di terzino destro, ma, con il trascorrere del tempo, ha conquistato un posto speciale nel cuore dei tifosi bianconeri. Il difensore è approdato ad Udine nel 1993 ed ha lasciato la squadra friulana solamente nel 2006. In mezzo fatica, sudore, determinazione, grinta, tanti contrasti vinti e la consapevolezza di essere stato un protagonista indiscusso della storia dell’Udinese. Per Bertotto, è difficile trovare le parole con cui iniziare a raccontare, in esclusiva a Tuttoudinese.it e IL CALCIO Magazine, la sua avventura bianconera:
“Ci sono tantissimi ricordi. È un lungo percorso di vita umana e professionale, il più importante della mia carriera. Sono arrivato da una squadra di Serie C ed ho raggiunto il top del top. Ho giocato la Champions League ed in Europa, ho vestito la maglia della Nazionale. Sicuramente è un bellissimo percorso in un altrettanto piacevole realtà, in cui si riusciva a coniugare le capacità con la qualità della vita buona”.
Ma Valerio non è stato solamente un valido difensore: è stato anche il capitano dell’Udinese che si affacciava con sempre maggiore consapevolezza nei piani alti della Serie A ed in Europa, sia essa Champions o Coppa Uefa. Quando Bertotto ripensa a quella fascia al braccio, la sua voce si increspa leggermente:
“Sicuramente un grande orgoglio, maggiore anche all’aver militato per tanti anni nella stessa società. Lo è perché si è riconosciuti come punti di riferimento e come persona a cui si può dare un senso di continuità nel tempo, anche per coloro che verranno in seguito. Avere la fascia di capitano non solo nelle competizioni nazionali, ma pure in Europa, diventando così una sorta di portabandiera, è un motivo di ulteriore orgoglio. Un orgoglio che si somma a quello già esistente per il fatto di giocare in una squadra così importante”.
Vivere 13 anni nella stessa città, giocando nella stessa squadra, non è cosa da poco. Nel calcio odierno è una rarità. Ci si può considerare bandiere di una società? Bertotto riflette inizialmente. Poi confessa:
“Beh, ho passato ad Udine 13 anni della mia vita. Pochi calciatori hanno trascorso tanto tempo in un solo club. Si diventa una bandiera, perché questo periodo ti entra dentro e, di conseguenza, si arriva a far parte del tessuto della società e della città. Ritengo sia lo stesso anche per i tifosi. Sicuramente è un aspetto molto molto positivo, bello e piacevole sapere che la gente si ricorda di me come del giocatore con un bel percorso, capitano e bandiera. Fa piacere a livello umano”.
In 13 anni non sono mancate le soddisfazioni. Molte gioie sportive sono coincise con incontri vittoriosi o dall’esito positivo. Bertotto è chiaramente emozionato quando ripensa ai momenti più belli. Dovendo fare una selezione all’interno dei suoi ricordi più piacevoli, l’ex difensore elenca alcune tappe importanti nella sua carriera:
“Ho in mente la prima partita in assoluto, quella del mio esordio a Cagliari. Era l’inizio della concretizzazione vera e propria del sogno che avevo da bambino e finalmente realizzato. Poi ricordo l’ulteriore step: la prima partita di Coppa Uefa. Ricordo la bellissima vittoria contro il Bayer Leverkusen in trasferta. Ricordo anche la Champions League, in generale. E poi, personalmente, ricordo anche l’esordio in Nazionale”.
Nel corso di tante stagioni da protagonista, non sono mancate le delusioni ed i rimpianti. Capitan Bertotto non nasconde l’amarezza di non aver lasciato un segno ancora più marcato nella storia del club:
“Diciamo che non siamo riusciti ad replicare a livello europeo quanto di buono facevamo in campo nazionale, nonostante fossimo spesso superiori. Eppure, per mille ragioni e vicissitudini, ci sono capitate sempre diverse sfortune, che ci hanno impedito di andare più in là del reale potenziale della squadra. E questo è un peccato. Anche in Coppa Italia, per un paio d’anni, abbiamo sfiorato la finale, senza riuscire a raggiungerla. Sarebbe stato bello lasciare un segno ulteriore, qualcosa di concreto. Forse, la Coppa Uefa poteva risultare un obiettivo eccessivo, ma la Coppa Italia era un traguardo realizzabile”.
E l’idea di rendere l’Udinese qualcosa di più di una semplice outsider? Il sogno scudetto non è mai balenato nella mente di quella squadra? Valerio non si tira indietro. È schietto e sincero:
“L’abbiamo sfiorata per diverse volte. Tuttavia, anche agli anni in cui la classifica sorrideva maggiormente rispetto alle precedenti edizioni, siamo arrivati vicini alle prime, ma queste obiettivamente avevano qualcosa in più. Nell’anno in cui siamo arrivati terzi con Zaccheroni, ci sono stati sicuramente episodi penalizzanti per noi. Comunque il percorso delle altre squadre è stato ancora più netto rispetto al nostro. Bisogna essere orgoglio di quanto abbiamo fatto, allo stesso modo dell’anno in cui siamo arrivati in Champions League con Spalletti. Quel quarto posto vuol dire aver fatto un salto in avanti a livello tecnico, organizzativo e qualitativo veramente notevole. Per una società come la Juventus vuol dire vincere lo scudetto, per capirci”.
Ora il torinese ha intrapreso la carriera dell’allenatore. Quali sono stati i suoi maestri, i tecnici che gli hanno insegnato maggiormente?
“Ho sempre detto che, per quanto riguarda il mio percorso friulano, ricordo con piacere tanti allenatori, ma chi mi ha dato un imprinting molto forte a livello di crescita da ragazzo ad uomo e di capacità tecnico-tattiche sono stati Zaccheroni e Spalletti”.
In che cosa differivano tra di loro?
“Sicuramente in maniera completamente opposta l’uno dall’altro, caratterialmente e per esperienze personali. Quando arrivò Zaccheroni, ero agli inizi. Ero molto giovane ed irruento nelle mie cose, molto testardo; lui mi ha fatto capire che intravedeva in me alcune qualità e, per farmele rendere al meglio ed evitare di commettere errori gravi per la mia prestazione, mi martellava di continuo. Un po’ come un buon padre con un figlio che potrebbe rendere di più a scuola. Questa è stata una lezione importante e lui è stato fondamentale per la mia crescita tattica, per lo sviluppo di quel 3-4-3. Lo è stato con grande spregiudicatezza e forza d’animo, ma con organizzazione notevole. Con Spalletti, invece, per quanto riguarda la grande organizzazione e qualità del lavoro, mi ha colpito la fiducia con cui riesce ancora oggi ad infondere ai suoi ragazzi la voglia di andare a primeggiare contro tutti. È stato un percorso lungo tre anni, che ci ha consegnato alla fine l’accesso alla Champions League”.
Bertotto ed il Friuli: un amore sbocciato nel corso della sua avventura all’Udinese e mai sopitosi negli anni successivi. Lo dichiara lui stesso, confessando un legame ormai pressoché indissolubile:
“Io vivo in Friuli, al di là del mio lavoro, che mi tiene lontano. Ormai ritengo sia diventata la mia casa, nonostante io sia piemontese ed abbia ancora i genitori, la sorella ed alcuni parenti a Torino. Sono diventato friulano al 100%. È un ambiente sereno, che permette di vivere bene e di far crescere tranquillamente i propri figli. Permette di godere delle cose semplici, ma allo stesso tempo importanti della vita. Ritengo di essere stato fortunato due volte”.