A.P.U., il dovere di crederci
Riccardo Cortese, alla presentazione in maglia veregrense, ha definito la situazione udinese una storia ‘che stava scivolando via triste’. Sì, ha ammesso proprie colpe: avrebbe dovuto dire, però, che quello triste era lui.
Noi no.
Io non sono triste: amo troppo questo sport per non godere ogni singolo, fottutissimo secondo di ogni singola, fottutissima partita. E mi sono visto, con piacere mitigato solo dalla mancanza di partigianeria, persino Oriora-Vanoli. Quella sì, proprio un fottutissimo match.
Io non sono triste: perché ho accompagnato questi colori giù in A2 negli anni ’70, poi la risalita in maglia 5-3-5 nel 1984, il saliscendi anni ’80; l’epopea Snaidero-II, perfino gli anni-Querci. E ripartendo con loro dalla serie C, poi la sera di Forlì, i derby vinti e gli ultimi tre anni, nei quali i playoff promozione verso la massima serie paiono quasi una formalità.
Io non sono triste: questa testata ha contribuito ad alimentare la mia voglia di raccontare il basket; a modo mio, magari a volte contestabile (vero Presidente? Vero ex-pupillo di Marione De Sisti?) ma mio. Ammirando, mai copiando quello dei numi tutelari. Uno dei quali ha definito l’NBA ‘salto in alto con la palla’. Un genio in senso totale ed assoluto.
Io non sono triste: ho cercato di raccontare il lato umano dei giocatori che ho intervistato, e lo farò ancora, al di là delle dichiarazioni ovviamente di rito. Ho cercato di ascoltare l’amico Lino Lardo, Ale Ramagli, Martello e Demis, col quale litigavano e ci abbracciavamo ad ogni conferenza stampa. Cerco di parlare di cose tecniche con Jerome, e Bona, e Montena; per capire quel che non so, che è tanto; per rubare idee per me, che spesso non riporto sulle mie righe, ché me le voglio custodire.
Io non sono triste: parlo di basket side-by-side con il GM di Udine ogni lunedì in cui il cielo mi concede di stare a Udine, e mi piace un casino. Per rendere il basket una cosa seria, ma non così seria. Un gioco, per me il più bello.
Io non sono triste perché quando sento l’urlo del Carnera ad una tripla di Cromer, una scivolata di Anto o una schiacciata di Beverly mi sale ancora un brivido. E non mi vergogno di dire che dopo i derby vinti, ricordando quelli eroici di trent’anni fa contro Gorizia (in particolare) e la stessa Trieste, mi sono un po’ commosso. Perché quell’anno l’Alma era una squadra nettamente più forte: ma in quelle due occasioni Udine è stata, semplicemente, ingiocabile.
Io non sono triste perché mi sento parte del gioco. E la devono, a maggior ragione, sentire anche i giocatori, questa felicità di esserci. Di essere a Udine, al netto del fatto che qui i soldi arrivano puntuali; di indossare i colori dei Savorgnan, come ben testimonia un Vittorio Nobile che si butta dentro, segna e rientrando chiede al pubblico l’incitamento.
Non parlo di cose tecniche in vista del match di domani contro Roseto, se n’è egregiamente occupato Francesco Paissan, decisamente più realista di me. Dico però che se la truppa di Ramagli la fa finita con le timidezze, con le pause e si concentra sui propri punti di forza, la completezza di un gruppo decisamente ben assortito, ce ne sarà per pochi. Specie in un campionato ancora vischioso come il miele, e come miele attira attorno al vertice tante, forse troppe squadre: nel girone discendente, secondo me, ed ancora di più nella fase ad orologio i ruoli si definiranno, le distanze si sfilacceranno sempre di più ed alla fine rimarranno le squadre meglio attrezzate.
E Udine ha il dovere, morale e pratico, di crederci. Credere di essere una delle squadre migliori; credere di potere battere la migliore delle formazioni di A1; credere che ogni difesa possa essere l’ultima, ogni palla vagante quella decisiva, ogni tiro quello della staffa.
Noi ci crediamo. Perché siamo sciocchi, forse. Sicuramente perché questa squadra e questi ragazzi lo meritano.