Ci sono occasioni, nella vita, in cui è richiesta qualcosa in più della mera prestazione sportiva; della difesa, del passaggio, della rete in sforbiciata. Occasioni in cui una persona deve dimostrare, a sé stessa ed al mondo attorno, di essere tale e di meritare questo appellativo, non generico né banale: persona.
Udine ha vissuto quattro giorni da sogno, riabbracciando il sorriso inconfondibile del figlio di Rio divenuto, per due anni, pupillo di questa terra e questa gente. Ne scriverò, durante la prossima settimana: ma oggi no. Se non marginalmente.
Lo sapevo. Lo sapevo. Lo sapevo. E ne siano testimoni Stefano, Stefano, Nicola attorno a me, e il Bro Roberto cui prima della gara (ma dopo il groppo in gola del giro di campo) messaggiavo “siamo sicuri di volere rimanere”?
I primi minuti mi schiaffeggiavano: Udinese veloce, pugnace, una rete che rendeva onore al Rei seduto in tribuna.
Fine.
Quando il Sassuolo ha iniziato a giocare al calcio, se non sbaglio schierando dieci ragazzi italiani su undici con alcuni nomi ignari ai più (ma di scuola e qualità indubbie), l’armata Brancaleone di Gigi l’Aquileiense ha sbandato, si è abbassata, mani sulle ginocchia e lingua a penzoloni. Due reti tardive del subentrante Gregoire Defrel (non Perica né Matos, purtroppo) rendono giustizia a quanto visto sulla pelouse friulana, piena di buchi come la squadra bianca e nera.
Mi dicessi sorpreso, sarei bugiardo: perché l’Udinese è in vacanza da quando, contro il Milan, ha indovinato la giornata-tipo mettendo di fatto la parola “fine” alla propria personalissima lotta salvezza; ed anche oggi ha mostrato poco. O nulla.
Al Galinho Bruno Pizzul chiedeva, nella mirabile conferenza pre-gara, cosa pensasse dell’Udinese di oggi; Arthùr rispondeva con diplomazia, ma dentro di sé avrà pensato che la domanda, per quanto chiamata dall’ambiente, fosse di un’assurdità mai vista.
Perché? Facciamo a capirci: con Zico giocavano Brini, Galparoli e Tesser, o De Agostini; Gerolin, Edinho e Cattaneo; Causio, Miano o Marchetti, Mauro e Virdis. A parte il portiere (Oreste anche oggi ha fatto il suo, nonostante la cavallina sulla prima rete), persino Cesarone l’Armaròn, con tutti i suoi enormi limiti, avrebbe mangiato in testa ai pedatòri ciabattanti di oggi. Il resto all’epoca avrebbe portato la borsa ai nostri.
È triste, sì, ma è così: quest’Udinese è musilianamente senza qualità, e purtroppo parlo in generale. Nel marasma oggi trascino mio malgrado Gigi, il quale non indovina il “cambio che cambia” la gara allorquando con Perica la palla in attacco non la si tiene mai. Stipe è generoso e simpatico, ma dovrà lavorare tantissimo per diventare un buon giocatore di massima serie. Iniziando dalla coordinazione e dallo stacco di testa.
Non parliamo di voti, o giudizi tecnici tattici agonistici: quest’Udinese è impresentabile, nel senso che l’unico coraggio che mostra è quello di fare brutte figure in serie, da tre anni, senza vergognarsene mai. Abbiamo accusato Strama, Colantuono, De Canio, Iachini, ora (qualcuno, non io) Delneri: la realtà è che Nereo Bonato deve iniziare a lavorare su una struttura valida di squadra, meglio ancora se italiana, e deve farlo subito. Subito. Adesso. E Gigi finalmente (dietro di lui la società) si dimentichi degli obblighi morali, eventualmente contratti con altre società, e schieri ragazzini con la voglia di mangiare l’erba sotto i piedi dell’avversaria.
Dico la verità: fossi uno dei giocatori, sentire la mia curva cantare “L’Udinese siamo solo noi” o peggio ancora “Zico in campo alé” mi avrebbe umiliato; poi vedo un panchinaro levantino che va sotto la curva a salutare ed applaudire come avessero vinto sei a zero, e capisco tutto. Tutto.
Capisco che sicuramente il gruppo sarà composto da bravi ragazzi, ma oggi era la giornata in cui attorno a loro si celebrava la storia del calcio. La storia, non fuffa. A prescindere dalla militanza friulana, quel signore sessantatreenne ha vergato a colpi di prodezza pagine bellissime nel grande libro del calcio mondiale: hanno scelto, bontà loro, di non farne parte neanche marginalmente, termovalorizzando sé stessi e la propria credibilità ai nostri occhi.
No: non sono riusciti a trascinare nel piattume della loro inutile nullità noi. Nessuno fra noi, non oggi: il tifo della curva, ma non solo, ha commosso me e di certo Arthùr; la maglia, cosa sacra, stava volando alto, troppo per quegli esseri oggi, ancora una volta, troppo piccini per noi. Alta, come l’enorme bandiera con l’effigie del Galinho sventolata da Andrea con indefesso impegno.
No: potevano dimostrarci di essere persone, non ce l’hanno fatta. Incapacità? Mancanza di volontà? Affari loro.
Io imballo la valigia del lungo viaggio, e quando ancora il gallo starà dormendo me ne volerò oltreoceano. Davanti a me, mentre scrivo, guardo la maglia vintage con la dedica che Arthùr mi ha fatto; ripenso a quel manìpolo di ragazzini, la primavera 1981, che con Zico entrò nel calcio mondiale: a Gigi, a Zè Paolo, a Manuel. Al Barone, grande brasiliano leccese; a mister Enzo, cui posso avvicinare Gigi l’Aquileiense in continuità.
E scoprò che delle attuali controfigure non me ne frega nulla. Certo: mi spiace, vorrei vedere i bianchineri di nuovo competere per qualcosa che conta, o quantomeno rendere il Friuli un fortino inespugnabile. Non fosse così, ci perderanno coloro dei quali, fra trent’anni, qui non importerà nulla a nessuno. Più o meno come accade oggi. Se vi piace così, amici ciabattanti miei, accomodatevi.
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